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L’Impero Romano è conosciuto da tutti come il manifesto della vitalità, della forza e dell’eccesso, grazie alle conquiste magnifiche, alle costruzioni colossali, alle esecuzioni scenografiche e alle lotte tra gladiatori. Dai Greci poi hanno ereditato la passione per i grandi banchetti e i simposi, in cui la convivialità era sempre accompagnata da un buon vino, come ci descrivono gli autori e gli storici, quali Catone, Plinio il vecchio, Cicerone, Virgilio, Orazio e altri.

Se non si hanno letto i loro scritti, è naturale chiedersi come bevevano il vino i romani? Chissà come sarebbe stata per loro quella che noi oggi chiamiamo la carta dei vini.

Quanto vino bevevano i romani?

Nell’antica Roma il gusto del vino era destinato solo agli uomini, per di più solo ai facoltosi e con più di 30 compleanni alle spalle. La donna era spesso controllata dalla suocera, che poteva sentirne l’alito per verificare che non odorasse di vino: anche un solo assaggio avrebbe fatto sì che la donna fosse considerata adultera.

Fortunatamente, dall’età imperiale anche la donna poté iniziare a godere della bevanda (almeno il vino passito), per poi essere, nell’età etrusca, anche ai banchetti.

Il vino era una bevanda costosa che iniziò a diffondersi soprattutto per i festeggiamenti delle conquiste territoriali, in taverne e nello specifico negli enopolium e thermopolium, luoghi di vini e cibo.

Proprio per questo, i vini venivano consumati durante attività illegali (gioco d’azzardo e prostituzione) e per limitare il consumo di vini scadenti furono redatte delle regole circa i contenitori dai quali poteva essere o meno servito e vennero, inoltre, applicate delle tassazioni. Quest’ultime erano legate alla misura in cui si beveva, ovvero:

  • sospiro o sottovoce = 1/10 di litro
  • chierichetto = 1/5 di litro
  • quartino = 1/4 di litro
  • fojetta = mezzo litro
  • tubbo = 1 litro
  • barzilai = caraffa da 2 litri

Come bevevano il vino i romani? Le tipologie e le aggiunte aromatiche

Come bevevano il vino i Romani? A differenza del vino che conosciamo noi, quello che bevevano i Romani non poteva essere classificato come i nostri amati Vermentino, Monica o Cannonau, ma poteva essere distinto, come ai giorni nostri, per la qualità d’uva utilizzata e in base alle caratteristiche organolettiche, ad esempio: dolce (dulce), morbido (soave), molle (lene), debole (fugens), pieno (firmum), aspro, austero e alcolico.

La bevanda era caratterizzata da un grado alcolico più elevato; infatti, veniva diluita con l’acqua calda o fredda (generalmente due parti di acqua con una di vino) per poterne bere in quantità senza cadere nell’ubriachezza. All’inizio del banchetto veniva nominato in maniera casuale un magister bibendi, il quale aveva il compito di scegliere le parti di acqua e vino senza consumarne lui stesso: doveva rimanere lucido per osservare i conviviali.

Spesso il vino veniva anche aromatizzato con delle aggiunte, come acqua marina (che sostenevano aiutasse la digestione e avesse proprietà lassative), sale, gesso, resina, piante aromatiche (rosmarino, anice, finocchio) o reso più dolce con del miele e aromi al mosto.

Un vino particolarmente profumato che gradito dai bevitori era l’ippocras, ossia vino, ambra, pepe, mandorle, muschio, susina, zenzero, cannella, chiodi di garofano e fiori di macis.

In più, a seconda del momento conviviale, veniva scelto il tipo di vino da consumare. Ad esempio, per gli antipasti, era preferito aggiungere dei fiori al proprio vino, come le rose e le viole, rendendolo profumato e virando il colore al rosato o violaceo.

Veniva poi prodotto anche il cosiddetto assenzio romano (foglie di assenzio infuse in un vino di un grado alcolico molto elevato) e il mulsum, vino fatto dalla prima spremitura delle uve del Falemo e del Cecubo aggiunto di miele attico, il più apprezzato dai romani. Il mulsum subiva un processo di filtrazione all’interno di anfore, poi messe su un ripiano in una posizione rialzata rispetto a un focolare, così da affumicare il vino e conferirgli il gusto tipico del mulsum. Siccome questo era una qualità di vino costosa, chi avesse voluto avvicinarsi alla degustazione di una bevanda simile poteva mescolare sul momento vino e miele, non ottenendo chiaramente lo stesso risultato.

Un’altra pratica ricercata era quella di andare a raccogliere la neve sui monti (con tutta la difficoltà di non farla sciogliere durante in ritorno) per poter raffreddare il vino. Ancora, sovente i Romani trasformavano il vino bianco in rosso, processo di cui si trova tramandata la tecnica.

I vini più pregiati, invece, venivano bevuti “lisci” e, precedentemente alla consumazione, subivano un processo di invecchiamento, che aveva luogo al sole o in una soffitta.

Infine, per la convinzione (errata) che aiutasse la conservazione del vino, talvolta venivano fatte delle aggiunte di scaglie di ostriche tritate o di cenere (aggiunte non propriamente commestibili). Queste modificavano il gusto e provocavano disagi fisici come dolori di stomaco, cefalee, vertigini. Capitò anche che si utilizzasse un’erba velenosa della famiglia delle Solanacee per la profumazione del vino.

Le uve

La viticoltura, oltre a essere in primo luogo autoctona, i romani l’avevano ereditata dai greci, dagli etruschi e dai cartaginesi, così come le tecniche per coltivare la vite e quelle di vinificazione.

L’interesse dei romani alla viticoltura era alimentato dal fatto che la penisola italica aveva il terreno adatto alla pratica. Questo portò Catone, nel III sec a.C, a definire la vigna come la prima delle colture italiche e Sofocle a nominarla la terra prediletta del Dio Bacco.

Le prime uve ad arrivare nell’Impero sono state le colorate Aminee e le Nomentanae, coltivate in Sicilia e Magna Grecia. Poi le uve Apianae, la Balisca, Rhaetica, Buririca e la Labrusca, uve dal carettere diverso e che conferivano al vino delle qualità peculiari.

La raccolta e la preparazione del vino

La vendemmia veniva eseguita a mano o con dei coltelli adatti. Successivamente l’uva raccolta veniva portata nelle cantine dove si sarebbe svolta la selezione degli acini più maturi (destinati ai vini migliori) e quelli più acerbi che, mischiati anche ad acqua e vinacce, erano utilizzati per la produzione dei vini per gli schiavi. Questo si chiamava la lora, cioè vinello. Gli schiavi, come i contadini e gli operai, potevano godere di tre quarti di litro al giorno (in media era di 260 litri/anno).

Come talvolta succede ancora in Italia, dove in alcune zone rappresenta una vera e propria tradizione, a produrre il vino erano uomini e donne che schiacciavano con i piedi i grappoli all’interno di catini in muratura, le calcatorie. Dopodiché il mosto fiore ottenuto, cioè il succo completo di semi, bucce e raspi, veniva riposto nei torchi a leva dove poteva essere schiacciato ulteriormente e poi filtrato.

La fermentazione avveniva, in seguito, nei dolia (grandi contenitori in terracotta), anche se spesso ospitavano il vino per il processo dell’invecchiamento o per il trasporto.

Infine, nel caso la limpidezza del vino non fosse sufficiente, si aggiungeva albume d’uovo o latte di capra, un’aggiunta curiosa per noi del ventunesimo secolo.

Anche i Romani avevano i degustatori, e proprio grazie a loro potevano essere eseguite le distinzioni sensoriali citate precedentemente.

Dalla prima metà del I sec. a.c, secondo Plinio i vini italiani erano, per fama, alla pari dei raffinati greci. Tuttavia, all’epoca si vedevano emergere quelli spagnoli, grazie alla loro conquista dell’Ibera. Successe infatti che l’Italia, che non aveva più schiavi poiché non più vittoriosa di guerre, prese l’abitudine di importare in grandi quantità il vino da Spagna, Grecia e Gallia, tanto che Domiziano cercò di proibire la piantagione di nuove viti, per evitarne l’ulteriore abbandono. L’editto, però, fu pressocché ignorato e nel 280 d.C. Probo fece ripiantare i vitigni che erano stati estirpati.

Altre bevande particolari degli Antichi Romani

Oltre al vino, c’erano delle bevande alcoliche che i romani di diverse classi gustavano, a seconda della situazione.

Ad esempio, era gradito l’idromele, una bevanda estremamente zuccherina fatta di due parti di acqua piovana e una di miele fermentate. Oppure c’era l’oximele, considerato quasi un medicinale: acqua piovana, aceto, miele e sale marino. Anche gli apprezzatissimi sidri di frutta (ad esempio di pere o mele cotogne) erano reputati medicinali.

La posca, invece, era aceto e acqua. I soldati e i contadini la bevevano per rinfrescarsi e recuperare le forze durante sforzi fisici, ma non era una bevanda che tipicamente accompagnava il pasto. Altrimenti, al posto della posca di poteva consumare il vino di datteri, cioè acqua e polpa di datteri maturi, il tutto fermentato.

Insomma, i vini romani erano molto lontani dalla nostra concezione di vino, ma erano già a conoscenza delle tecniche di vinificazione e dell’importanza delle temperature. Erano capaci di produrre vini frizzanti ed erano a conoscenza della necessità di pulire gli attrezzi da cantina.

Perciò, nonostante producessero una bevanda di cui a noi risulta difficile immaginare il sapore, sappiamo con certezza che per il loro tempo i romani raggiunsero un livello particolarmente elevato di conoscenze e sviluppo tecnico, sia in vigna che in cantina.

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