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Immagina la scena in cantina: il mosto rosso ribolle, un tappeto compatto di bucce delluva galleggia in superficie spinto dall’anidride carbonica che si sviluppa durante la fermentazione alcolica. Quel cappello profumato è una miniera di colore, tannini e aromi, ma se restasse a galla isolato dal liquido, finirebbe per seccarsi, ossidarsi e disperdere buona parte della sua ricchezza. Ecco perché, durante la vinificazione, i cantinieri intervengono con il rimontaggio: un gesto tanto semplice all’apparenza quanto decisivo per la qualità finale dei vini rossi. Consiste nel prelevare il mosto dalla parte bassa del serbatoio e spruzzarlo sopra la parte superiore, bagnando il cappello e rimescolando l’intera massa.

Cos’è il rimontaggio e a cosa serve davvero

Il termine “rimontaggio” descrive alla lettera l’azione di “rimontare” il mosto, cioè farlo risalire dal fondo per ricadere dall’alto attraverso tubazioni e apposite docce. Ma cosa serve esattamente questa operazione? Prima di tutto a mantenere umide le bucce, evitando che si formi una crosta asciutta difficile da reincorporare. In secondo luogo, il flusso rompe la stratificazione termica: nelle prime fasi fermentative la temperatura può salire rapidamente, e rimescolare significa distribuire il calore in modo uniforme e scongiurare picchi che danneggerebbero i profumi varietali. Infine, l’apporto di una piccola quantità di ossigeno – quello che il mosto ingloba mentre cade a cascata – rafforza l’attività dei lieviti, riducendo i rischi di fermentazioni lente o interrotte.

Per questo i rimontaggi si concentrano soprattutto nella prima settimana, quando la densità del mosto è maggiore e l’estrazione di antociani e tannini è al suo apice. Una volta che la fermentazione rallenta e il cappello inizia a sgonfiarsi, la pratica si dirada fino a cessare del tutto prima della svinatura.

Quante volte al giorno e con quali effetti sui vini rossi

Non esiste una regola fissa: l’enologo decide quante volte al giorno intervenire in base a varietà, temperatura e stile desiderato. In generale, nelle macerazioni classiche si effettuano due o tre rimontaggi quotidiani nei primi tre-quattro giorni, poi si scende a uno, monitorando costantemente colore e profumi del mosto. In produzioni che puntano a estrazioni più intense – pensiamo a Cannonau o Carignano destinati a lunghi affinamenti – si possono programmare addirittura rimontaggi “continui”, con pompe a flusso morbido attive per molte ore.

Il risultato si avverte subito nel bicchiere:

  • Colore più profondo e stabile, grazie all’estrazione di antociani che, legandosi ai tannini, resistono meglio all’ossidazione.
  • Struttura tannica equilibrata, perché i polifenoli della buccia si solubilizzano in modo graduale anziché a strappi.
  • Profumi più complessi, derivati non solo dal contatto prolungato con le parti solide ma anche dall’ossigeno dosato che stimola reazioni aromatiche secondarie.

Come avviene, passo dopo passo

  1. Prelievo: una valvola posta sul fondo attinge il liquido limpido della parte bassa.
  2. Pompaggio: il mosto percorre un circuito esterno (o interno nelle vasche a pistone) che ne misura portata e pressione.
  3. Doccia o spruzzo: all’arrivo in testa al serbatoio, il flusso bagna il cappello in modo uniforme.
  4. Ricompattamento: il cappello si rompe, scende e libera CO₂ intrappolata, prevenendo ristagni di anidride carbonica.
  5. Controllo: l’enologo verifica densità, temperatura e colore prima di stabilire il momento del prossimo ciclo.

Le moderne cantine, impiegano serbatoi in acciaio con circuiti computerizzati che programmano durata e portata di ogni rimontaggio. Così si riducono i consumi energetici e si ottiene una ripetibilità che aiuta a mantenere lo stile di annata in annata.

Rimontaggio, follatura e delestage: parenti stretti ma diversi

Spesso si confonde il rimontaggio con la follatura, pratica più antica in cui il cappello viene spinto giù meccanicamente con pistoni o bastoni. Entrambe servono a bagnare le vinacce, ma la follatura è più energica e adatta a macerazioni corte. Il delestage, invece, prevede lo svuotamento completo del serbatoio e il successivo reinnesto del mosto, ottimo per estrarre colore senza eccesso di tannino. In una strategia enologica flessibile, le tre tecniche possono alternarsi per modellare il profilo finale del vino.

Il rimontaggio nel bicchiere

Quando degustiamo un rosso e notiamo quella tonalità rubino intensa che non sbiadisce neppure dopo qualche anno o quella tessitura tannica fitta ma rotonda, stiamo assaporando anche il frutto di decine di rimontaggi gestiti con perizia. Troppi rimontaggi possono far emergere un’irruenza verde, troppo pochi produrranno rossi pallidi e inconsistenti. Il segreto sta nel tradurre l’identità del vitigno – e del territorio – in un equilibrio armonioso fra struttura, freschezza e complessità aromatica.

C’è poi un aspetto spesso trascurato: la sicurezza. L’accumulo di anidride carbonica sotto il cappello può creare sacche pericolose sia per i lieviti (che potrebbero entrare in fase di stress) sia per gli operatori. Rompendo regolarmente la coltre, il rimontaggio garantisce un’atmosfera più sana nel serbatoio e nei locali di fermentazione.

Infine, vale la pena ricordare che il rimontaggio non è esclusivo dei grandi volumi industriali: anche i piccoli produttori artigianali lo attuano manualmente con tubi flessibili e secchi, ascoltando il borbottio del mosto per capire quando è il momento di fermarsi o intensificare l’estrazione.

Dalla parte superiore del cappello alla parte bassa del tino e ritorno, il rimontaggio è dunque un vero e proprio “ciclo vitale” che accompagna il vino fin dai suoi primi giorni di esistenza. Dosando tempi, portate e volte al giorno, l’enologo scolpisce profilo cromatico, struttura e bouquet, trasformando un succo in fermentazione in un rosso pronto a raccontare, sorso dopo sorso, la storia della sua terra. Una pratica antica, certo, ma ancora insostituibile per chi crede che la qualità nasca dal dialogo costante fra tradizione e tecnica.

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